METALLICA – 72 Seasons

METALLICA – 72 Seasons

È uscito il nuovo dei Metallica e, detta molto in breve, non sapevamo bene come pensarla dopo averlo finito di sentire. La cosa che mi ha più sorpreso nell’ascolto di 72 Seasons, disponibile al pubblico dal 14 aprile 2023 – è l’unanimità di pareri passivamente positivi che ha indotto nella critica. Mi aspettavo si argomentasse un po’ di più, per capire meglio, ma mentre finisco di ascoltarlo e di scrivere queste righe mi rendo conto che, in un certo senso, ci hanno fregato un’altra volta.

Questi sono i Metallica nel 2023, prendere o lasciare. La rivista Classic Rock ha dato a questo lavoro un rating di 4 su 5 (nulla da obiettare in sè, fino a questo punto), ul tutto descrivendo la musica con suggestioni d’altri tempi, neanche  parlassimo di Painkiller dei Judas Priest o di Dead Heart in a Dead World dei Nevermore: per loro si tratta di metal moderno placcato in titanio, dotato di testi tormentati e tetri. Mi fermo, rifletto su quello che ho letto, ascolto l’album nel mentre: cerco meglio, ascolto bene, ma nulla, non trovo corrispondenza con questa nebulosa e sesquipedale definizione.

Un lavoro che ricorda parecchio le sonorità di Hardwired… to self distruct (2016) e che consiste (ancora una volta) in un coacervo di hard rock cadenzato, relativamente massiccio quanto monocorde, in cui diventa difficile distinguere le varie tracce l’una dall’altra. Quella dei Metallica è una saga musicale di buon livello, questo è fuori discussione, quanto è diventata prevedibile, come una serie TV di successo quanto interminabile, come un libro appassionante ma troppo lungo da leggere, come una coda infinita sull’autostrada, con l’autoradio in panne, per cui devi ascoltare per 70 minuti e passa sempre le stesse 2 / 3 canzoni in rotazione. Con una sensazione specifica annessa a tutto questo, una costante da metà anni novanta in poi: che prima o poi torni a sentirsi quel metal che abbiamo amato, che provavamo malamente a suonare nei garage degli amici, che ispirava sogni, curava delusioni, sedava rabbia, accompagnava letture di Lovecraft, viaggi e bevute tra amici, e ci faceva desiderare di vedere i Metallica dal vivo come l’ultima cosa da fare prima di morire. Illusioni, solo illusioni.

Ecco, questo disco sarà pure tetro e placcato in titanio (un linguaggio ricorda le supercazzole da cine-recensori acchiappa-click, come quando scrivono di un film che è un pugno nello stomaco), e anche ammesso che sia placcato in oro a 18 carati ho una notizia da darvi: non dimentichiamoci che non è metal. Breaking news. È un rock più rock che hard, un rock che cerca di sembrare metal – ma non è metal ,come diremmo dei Black Sabbath, tantomeno dei Judas Priest. Non si capisce perchè si ostini a volerlo sembrare. Vai a capire. Quello di equivocare masochisticamente sulle aspettative per questa band è un errore sistematico, grossolano e fuorviante, una qualcosa che ci fa del male, alla lunga, e ci illude stancamente che dentro ogni album ci possa essere una nuova Master of puppets. Non c’è neanche stavolta, ed è pure un bene che non ci sia: il vero punto è partire dal presupposto corretto, semmai. Diversamente, si finisce per andare contro il messaggio che sta lanciando la band da quel fatidico 4 giugno 1996 in cui cambiarono registro (data dell’uscita di Load). E resta discutibile, ancora oggi, quel modo di sparare i riff in cassa, quelle produzioni cristalline e ripetitive, quel modo martellante di suonare le ritmiche, quel modo di concepire gli assoli, quel modo di cantare – il tutto a suggerire: vi ricordate di noi, vero? Sappiamo fare ancora certe cose, pero’ vi vorremmo ricordare che non lo facciamo più.

Placcato in oro magari lo è pure, dato che è prodotto divinamente e si sente molto meglio rispetto alla media delle produzioni di questo tipo; il problema è lo fa mettendo in secondo piano implicitamente il passato, come se capolavori come Escape, Dyers eve, Metal militia fossero una cosa di cui vergognarsi (giusto per non citare i consueti, immarcescibili classici). Che poi il bello è anche questo: liberissimi di prendere una nuova direzione, lo accettiamo, un po’ meno di barcamenarsi tra indefinibili lidi, privi di possibilità di discuterne in modo sereno e senza riuscire ad associare un vero e proprio mood alla musica prodotta negli ultimi anni. Cambiare registro e rimanere in linea con il cambiamento ci starebbe alla grande. Addirittura i Pantera lo hanno fatto: la loro primordiale fase glam non la ricorda più nessuno, così come nessuno (o pochissimi) pensano ai Ministry in versione EBM o synth pop. Band controverse e popolarissime che pero’, a differenza dei nostri, hanno trovato un’identità focalizzata, cambiando sound molte volte, anche in modo impopolare, anche a costo di perdere pubblico in quantità industriali. Per i Metallica non è stato così, purtroppo.

Sembra anche che in sede live i nostri amati cavalieri dell’Apocalisse rivalutino il passato, per qualche esoterico motivo, e i loro pezzi classici tornino improvvisamente di moda – tant’è che la maggioranza dei brani suonati dal vivo sono tratti dai primi album, e non ci sono Hardwired e Seasons che reggano. Tendenza che immaginavo costante, ma che andando a verificare è anche un po’ confusa. Nella setlist del 16 dicembre 2022 hanno mixato vecchio e nuovo repertorio senza continuità, in quella del 6 novembre 2022 hanno suonato solo pezzi vecchi. Tecnicamente stanno trollando, un po’ come Elon Musk quando annuncia la “Rivoluzione” su Twitter, la stessa che poi non avviene mai – e il paragone con l’imprenditore non è casuale dato che, come ha osservato una mia amica dopo aver sentito questo album, i Metallica ormai sono più che altro un’azienda.

A questo punto è chiara la strategia (forse): i nostri Quattro Cavalieri del Lavoro (o dell’Apocalisse?) cercano di accaparrarsi nuovi fan producendo un rock aggressivo ma non troppo, ben prodotto, orecchiabile, certamente superiore alla media, per poi far conoscere “a tradimento” i classici del metal da loro stessi inventati in sede live, quando non c’è modo di scappare, quando ormai sei “prigioniero” della pit area o del moshpit e devi, in tutti i sensi, sentirli (e in cuffia, sia chiaro, mai l’avresti fatto). Mi metto nei panni del fan di nuova generazione e, in tutta sincerità, non capisco perchè riservargli questo trattamento, anche se posso immaginare che lo gradiscano pure.

Una cosa del genere avrebbe pure un qualcosa di geniale, per certi versi, per quanto rimanga l’ennesimo mistero insondabile su quale sia l’anima della band, su quanto la stessa sia autentica e credibile oggi – e quanto possa pagare, alla lunga, questo atteggiamento impalbabile verso generazioni di fan che li considerano tra i padri fondatori del metal, da cui sono riusciti pressappoco a farsi detestare anno dopo anno, dato che dovevano genericamente guardare avanti e volevano genericamente cambiare. Odi et amo, scrisse Catullo: uno che sicuramente non ascoltava i Metallica e forse avrebbe apprezzato i Bardomagno. Se è davvero come ho scritto, si tratterebbe di un percorso degno di una metal mission che manco i Manowar hanno mai realizzato: spingere hipster, emo, dark e “amanti del rock” (target più paraculo non potrebbe esistere) a conoscere la storia del metal che loro stessi hanno inventato, dicendo le cose come stanno solo in parte, come un genitore che racconta ai figli che i bambini li porta la cicogna. Che boomerata. Si tratta di un paradosso, ma in fondo non è neanche questo il punto: capire quale sia il punto è il vero interrogativo. Il tutto mentre ascoltiamo questo ennesimo lavoro post-metal / pre-rock / boh-blues nè bello nè brutto, nè da 1 nè da 10, che passa inerme sui nostri lettori anche ad un secondo ascolto, senza lasciare alcun lascito di ricordi o sensazioni da raccontare.

In 72 Seasons la produzione se non altro è massiccia, convincente, ogni nota è al proprio posto e tutto è come dovrebbe essere. Proprio come si aspetta ogni fan di seconda generazione, dato che la prima ondata è bella che andata, e sta lì a criticare come i vecchietti davanti al bar del paese quando arrivano i capelloni. L’aggettivo metal associato a questo disco stona in ogni caso, quanto suonerebbe male dire che i Ghost fanno metal o che i CCCP suonavano punk (semplificazioni becere e decontestualizzate), senza contare che oggi sono più metal gruppi come i The Darkness (criticatissimi anche loro, per molti versi) che gli attuali Metallica. Beninteso, nessuno vuole mettere a paragone la produzione Metallica del 2023 con quella dei Darkthrone o dei Mayhem: i Metallica pagano, a nostro umile avviso, il fatto di aver scelto di diventare una band americana mainstream ad ogni latitudine, imponendosi con un’identità nuova e orientata su un imprecisabile rock (?) nonchè (se possiamo scriverlo senza che qualcuno si offenda) facendo pure i permalosi ad ogni accenno di critica. Se non altro, a quel punto, si poteva cambiare nome, come tanti altri hanno avuto la trasparenza di fare, ed avremmo forse apprezzato di più.

Non staremo a rimpiangere Kill’em all (1983) – questo è scontato – meno che mai il Black album (ricordate chi l’ha criticato ferocemente per anni?), gruppone di album relegati ad una dimensione morta e sepolta, che pero’ la band, come notavo prima, è bravissima a riesumare a convenienza dalla tomba (sarà per via degli echi lovecraftiani della loro musica). È forse questa mutevolezza ad essere fastidiosa più di ogni altra cosa, a prescindere dal gusto – e addirittura dalla sostanza stessa del disco. Si badi anche che non si tratta di un problema di coerenza, ammesso che lo sia mai stato: è discorso di farsi capire da chi ascolta, anche perchè la coerenza musicale è sopravvalutata (potete segnarvela tra le massime dell’anno, no copyright). È più un discorso di cercare un’identità ad una band che rischia di averla buttata per strada, barcamenandosi tra un passato immarcescibile e un presente che vorrebbe sembrare adulto, duro e muscoloso – ma sul quale, in totale onestà, nutriamo più di un dubbio.

Il nuovo corso dei Metallica siamo convinti di conoscerlo bene, del resto, non fosse altro che è dai tempi di Load che i nostri eroi ce lo propinano a titolo di nuovo Verbo. Era il 1996, e i Metallica erano rinati: il vituperato Load fu un album di per sè sottovalutato, quantomeno a posteriori, considerando che (anche qui, senza offesa) il peggio doveva ancora arrivare. Un verbo musicale che in 72 Seasons vuole apparire ad ogni costo altisonante, epico, memorabile, e sembra avere ambizione di entrare nella storia della musica: cosa che avviene con brani interessanti come You must burn! (ricca di richiami puramente blues molto ben distribuiti) e Screaming Suicide, ma per il resto sorvolerei. De gustibus: il tempo passa per tutti, e forse siamo anche noi, dal canto nostro, un po’ stanchi di ripeterci e di prendercela per un “tradimento” che poi, alla fine, sembra più figlio di un atteggiamento confuso e di una confusa voglia di commercializzarsi, unita all’idea vagamente pretenziosa di sorprendere qualcuno nell’averlo fatto.

Un album che, di suo, si incentra sul processo di maturazione dell’essere umano, dato che le 72 stagioni non sarebbero altro se non i primi 18 anni di vita di ogni persona (“72 seasons is basically the first 18 years of your life“), con tutto il processo di rielaborazione e maturazione annesso. I Metallica sono cresciuti, questo è lampante, innegabile: ma sono cresciuti fraintendendo prima di tutto se stessi, con lo stesso spirito dell’amico ex metallaro, ieri alcolizzato ascoltatore dei Destruction oggi hipster in fissa con “la buona musica”, che non segue più certa “gentaglia” e si considera troppo adulto per andare a pogare.

Liberissimo di farlo, ci mancherebbe altro, quanto noi di non farcene carico.

A cura di Salvatore Capolupo

  • Band: METALLICA
  • Titolo: 72 Seasons
  • Anno: 2023
  • Genere: Metal
  • Etichetta: Blackened Recordings
  • Nazione: USA

Tracklist:

  1. 72 Seasons 07:39
  2. Shadows Follow 06:12
  3. Screaming Suicide 05:30
  4. Sleepwalk My Life Away 06:56
  5. You Must Burn! 07:03
  6. Lux Æterna 03:25
  7. Crown of Barbed Wire 05:49
  8. Chasing Light 06:45
  9. If Darkness Had a Son 06:36
  10. Too Far Gone? 04:34
  11. Room of Mirrors 05:34
  12. Inamorata 11:10

Formazione:

  • Lars Ulrich Drums
  • James Hetfield Vocals, Guitars (rhythm)
  • Kirk Hammett Guitars (lead)
  • Robert Trujillo Bass