Storia della Musica Elettronica (e dei pregiudizi intorno ad essa)
Parte Prima: dalla Genesi ai Genesis.
La “musica elettronica” spesso suscita sentimenti contrastanti in coloro che vi si approcciano. In fondo è un po’ come parlare del tutto e del niente: dalla odierna (e pessima) “musica” trap (capisco e condivido i vostri conati di vomito nel leggere una di fianco all’altra le due parole poc’anzi scritte) alle avanguardie “colte” di Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono, tutto ciò che è accaduto alla musica, dal secondo dopo guerra in poi, ha avuto a che fare, in un modo o in un altro, con l’elettronica. Certo, se ampliassimo l’utilizzo del termine al mero intervento di macchinari elettronici in una qualunque delle fasi della produzione della musica, non c’è nota incisa su disco, cd o cassetta che non abbia avuto a che fare con un aggeggio elettronico, foss’anche per la sola fase di incisione o microfonazione degli strumenti.
Ma con il termine “musica elettronica” dobbiamo considerare esclusivamente la musica per la cui creazione non ci si è avvalsi di strumenti in grado di produrre suoni solo tramite le loro caratteristiche “fisiche”, bensì con quella categoria di strumenti – chiamati elettrofoni – nei quali la produzione del suono è determinata da impulsi elettrici e dalla modificazione di questi. Esempio: il pianoforte non è uno strumento elettronico, essendo il suo suono causato dalla percussione fisica delle corde ad opera dei martelletti collegati ai tasti pigiati dal musicista, la tastiera che utilizzava il tizio del karaoke l’altra sera al pub, invece lo è, dato che i suoi suoni erano prodotti da un processore elettronico!
I più forbiti di voi staranno obiettando: “ma quindi anche la chitarra elettrica è uno strumento elettrofono?”
Certo, bravi, indovinato: anche la chitarra elettrica, come il basso elettrico, il violino elettrico e il piano elettrico lo sono (anche se in senso lato… più avanti vi spiego meglio).
E adesso i più metallari di voi – generalmente allergici al termine “elettronico” associato alla musica – staranno urlando: “vorresti dunque farmi credere che gli Iron Maiden, i Metallica e, addirittura, i Manowar, facciano musica elettronica?”
Tranquilli, ovviamente no. Bisogna fare una netta distinzione tra chi utilizza strumenti elettronici (al giorno d’oggi, praticamente tutti) e chi produce “musica elettronica”. Questa accezione è destinata a quelle opere in cui, tramite le potenzialità del mezzo elettronico, o i suoni predominanti delle composizioni hanno caratteristiche timbriche del tutto nuove rispetto agli strumenti musicali “classici” (esempi: l’album Zeit dei Tangerine Dream e Irrlicht di Klaus Schulze entrambi del ’72) oppure – come avverrà poco più tardi, grazie all’introduzione dei sequencer -, sarà il mezzo elettronico stesso che, partendo da degli input base del musicista (singole note o sequenze di note), a generare ritmi e melodie “intelligenti” capaci di interagire con l’attività dell’artista (esempi: Autobhan dei Kraftwerk del ’74 e Oxygene di Jean Michel Jarre del ’76).
La nascita della “musica elettronica”, per la prima volta nella storia della musica, ha posto in campo la condizione per cui oltre al genio di chi la esegue è indispensabile che esso abbia a disposizione una precisa strumentazione: la qualità e le caratteristiche dello strumento musicale avranno la stessa importanza dell’idea musicale perchè altrimenti questa non potrebbe vedere la luce. Mi spiego meglio: per suonare un Notturno di Chopin basta un qualsiasi pianoforte – un pianoforte Steinway (pubblicità occulta non retribuita) suonerà meglio di un pianoforte marchiato “Stòpiffero”, ma la composizione sarà parimenti eseguibile e intelligibile, previa soltanto la bravura dell’esecutore -, la stessa cosa non varrà per i brani dell’album Oxygen di Jean Michel Jarre poichè, o si avrà a disposizione un’attrezzatura specificatamente adatta a produrre quei suoni e quei ritmi, oppure non sarà possibile eseguirlo efficacemente con una qualsiasi tastiera o sintetizzatore in commercio.
Ovviamente, il percorso che ha portato alla nascita della musica elettronica è stato lungo e articolato e, nell’ambito della musica Rock, troverà compimento solo dagli anni settanta in poi mentre, come spesso è accaduto tra l’indifferenza di troppi, la musica “colta” (quella dei conservatori, dei compositori, delle orchestre in abiti eleganti che usano leggii e spartiti) ha intuito, sviluppato ed estremizzato le capacità dell’elettronica associata alla musica, già a partire dagli anni cinquanta.
Come ho più sopra anticipato, per individuare le tappe che ci hanno portato all’odierna musica elettronica, oltre che dello sviluppo del processo compositivo, si deve parlare anche della nascita e dello sviluppo degli strumenti musicali che ne saranno protagonisti.
Facciamo quindi un salto indietro nel tempo di oltre un secolo e valichiamo l’oceano Atlantico fino ad arrivare a Washington dove un inventore di nome Thaddeus Cahill, nel 1897, brevettò un colossale macchinario dal peso di 200 tonnellate e dal costo di 200.000 dollari dell’epoca, che chiamò telharmonium (altrimenti detto Dinamofono), in grado di produrre vari suoni di organo grazie a complessi meccanismi meccanici integrati alla tecnologia di riproduzione sonora applicata ai fonografi e grammofoni dell’epoca. Grazie ad una serie di alternatori (uno per ogni tasto delle sette tastiere di cui disponeva), la macchina era in grado di generare correnti alternate in varie frequenze che venivano “tradotte” in suoni.
Nonostante il progetto originario venne rivisto e corretto numerose volte da Cahill, a causa di una resa sonora non soddisfacente, di un ingombro considerevole, dei lunghi tempi di assemblaggio e, soprattutto, di un costo esorbitante, il telharmonium fu, dal punto di vista commerciale, un fiasco assoluto, tanto da ridurre sul lastrico il suo inventore. Eppure Cahill, con un ulteriore colpo di genio, aveva pensato e brevettato anche un modo per far funzionare il telharmonium come un dispositivo per filodiffondere la musica… “filodiffondere”, sì, attraverso la linea telefonica: non vi ricorda nulla? Purtroppo anche questo progetto di “internet ante littera” fallì e ciò ci impone, dunque, di rendere il dovuto tributo a questo inventore visionario e sfortunato, la cui unica colpa è stata quella di essere stato troppo avanti con i tempi, e riconoscergli i meriti che gli sono propri: il padre della musica elettronica è lui, rendiamo grazie!
Miglior fortuna (certo non commerciale, ma sicuramente per quanto concerne notorietà, uso e diffusione dell’invenzione) la ebbe il russo Lev Theremin, creatore nel 1919 dello strumento musicale che porta il suo nome. Il theremin è composto da uno scatolotto in legno con all’interno un cuore elettronico collegato a due antenne poste all’esterno della scatola stessa. Quando il macchinario è in funzione, le antenne producono un campo magnetico (mi si passino, qui come durante tutto il resto dell’articolo, le non esaustive spiegazioni tecnologiche poichè lo scrivente non è né un elettrotecnico, né un fisico, né un ingegnere) che genera un suono, modificabile in timbro e altezza, con il semplice avvicinamento o allontanamento delle mani dalle antenne stesse. Il theremin, tra l’altro, ha il primato di essere il primo strumento (di una seppur ristrettissima cerchia) per il cui funzionamento non è richiesto il contatto materiale tra musicista e strumento musicale. Il costo e le dimensioni del macchinario erano relativamente contenuti, l’assemblaggio e l’utilizzo non particolarmente difficoltosi e il suono prodotto era abbastanza convincente e “particolare” da consentire al theremin una discreta diffusione ed utilizzo, dapprima da parte di compositori avanguardistici o di colonne sonore (non c’è film di fantascienza girato dagli anni quaranta in poi in cui non si sente il suo suono etereo in concomitanza della comparsa sulla pellicola di alieni, mostri e navicelle spaziali) ma, anni dopo, il suo fascino non passò inosservato anche a molti artisti della scena rock: indimenticabili sono i lunghi intermezzi solistici di Jimmy Page che lo utilizzava nei live durante il brano Whola Lotta Love, così come massiccio fu il suo utilizzo per la realizzazione dell’album Thriller di Michael Jackson.
Con il telharmonium e il theremin abbiamo fatto conoscenza, rispettivamente, con il primo strumento elettrofono in grado di simulare il suono di altri strumenti musicali e con il primo strumento in grado di creare un suono tutto nuovo, estraneo per caratteristiche timbriche a quello di qualsiasi altro suono ascoltato fino a quel momento.
Dalla data della loro creazione in poi, innumerevoli saranno i tentativi di realizzare strumenti musicali elettrofoni e, più la tecnologia è andata progredendo, migliori sono stati i risultati raggiunti. Inutile, in questa sede, cercare di descriverli tutti. Sarebbe un esercizio noioso per i più e sicuramente lacunoso: troppi i tentativi di creare nuovi strumenti musicali e troppo poco è stato il successo commerciale e di utilizzo da essi ottenuto per poterli definire artististicamente rilevanti. Giusto per completezza, segnalo l’unico strumento pseudo-elettrofono creato tra gli anni venti e gli anni sessanta che ottenne un enorme e duraturo successo: la chitarra elettrica.
Ho scritto “pseudo-elettrofono” poichè l’organologia, la scienza che studia gli strumenti musicali, classifica la chitarra elettrica nella famiglia degli strumenti “cordofoni – liuti a manico lungo” ma, poichè il pick-up (la componente elettronica che creando un campo magnetico al di sotto delle corde ne capta e “traduce” in suono le variazioni delle stesse) è una parte fondamentale e imprescindibile dello strumento, parlando in questo testo di musica elettronica, non ci sembra oltraggioso fare uno strappo alle regole imposte dalla scienza organologica e affiancare la chitarra elettrica agli strumenti elettrofoni.
Questo strumento, che diverrà iconico dagli anni cinquanta in poi con la diffusione del Rock’n’Roll, venne inventato da Adolph Rickenbacker nel 1931 (più che di una chitarra, nel caso di Rickenbacker, si trattava di una lap steel guitar… ma non facciamo troppo i puntigliosi altrimenti questo pezzo rischia di diventare un trattato) per poi “sposare” la forma a cui siamo più abituati grazie alla Gibson che, dal 1935, iniziò la commercializzazione del modello ES150, una chitarra acustica con un magnete (pick-up) montato sulla tavola armonica. Come già accennato, la chitarra elettrica sarà fondamentale nella storia del rock, del pop, del jazz e di tutte le possibili etichette che possiamo affibbiare alla musica popolare dal secondo dopoguerra in poi, ma avrà un ruolo, se non marginale, sicuramente più defilato per quanto riguarda l’utilizzo nel campo della musica elettronica. Ma è proprio grazie alla chitarra elettrica se importanti innovazioni nel campo dell’amplificazione degli strumenti musicali, dell’utilizzo della distrosione, degli effetti di ritardo, di modulazione, di equalizzazione e riverberazione vedranno la luce. Gli “effetti speciali” che fecero grande la musica di Jimi Hendrix, David Gilmour, Jeff Beck – tutti chitarristi -, verranno presi in prestito dai tastieristi che li collegheranno ai loro sintetizzatori, organi e pianoforti, facendoli diventare parte integrante e sostanziale delle sonorità elettroniche.
Il 1935 non fu solo l’anno della Gibson ES150 poichè, proprio in quell’anno, vide la luce il primo organo Hammond. Tale organo elettrico – che, dal punto di vista tecnologico, poco aggiunse al telharmonium di Cahill di quasi quarant’anni prima – ebbe il pregio di racchiudere in un formato non troppo ingombrante (ha grosso modo il volume di un pianoforte verticale) uno strumento capace di produrre suoni efficaci, credibili e ampiamente modulabili timbricamente. Non c’è gruppo rock degli anni sessanta che non lo abbia utilizzato e, grazie alla sua varietà timbrica, divenne uno strumento irrinunciabile per i musicisti che fecero nascere la musica elettronica nei primi anni settanta.
Ora, per completare l’arsenale a disposizione di questi musicisti serviva ancora uno strumento, la Stele di Rosetta con cui mettere in musicale intuizioni che balenavano nei loro cervelli geniali (e magari anche un po’ flashati dalle più variegate sostanze psicotrope): sto parlando del sintetizzatore Moog.
Sapete cosa faceva Robert Moog prima di inventare il sintetizzatore che porta il suo nome? Costruiva theremin da vendere nel mercato americano. Non ci mise molto ad intuire che il concetto di modulazione del campo magnetico alla base del funzionamento del theremin poteva essere riportato su una tastiera di organo, con il vantaggio di poterne ottenere una esecuzione più agevole e un’intonazione più precisa. Grazie a molteplici dispositivi elettronici (oscillatori, amplificatori, modulatori ad anello, ecc.) racchiusi in un unico chassis e azionabili e gestibili con bottoni e manopole, Moog realizzò uno strumento in grado di modificare in maniera drammatica una data frequenza musicale, creando così suoni nuovi e “fuori dal mondo”, consegnando ad una schiera di musicisti ispirati le chiavi per aprire un nuovo mondo di suoni sconosciuti.
Per adesso ci fermiamo qui.
In questa prima parte, abbiamo voluto tracciare una storia “tecnologica” della genesi della musica elettronica dal telharmonium di fine ‘800 al Moog degli anni sessanta. Nelle prossime parti ci addentreremo nella storia del genere e degli altri generi che da esso sono derivati e/o ne sono stati contaminati, elencandone i maggiori protagonisti e le loro caratteristiche.
Alla prossima puntata.
Sono Saverio Chiodo, musicista per diletto e musicologo per studi (ma non per professione). Autore del libro “Woodstock: Alba&tramonto” edito da Arduino Sacco Editore nel 2010. Genere preferito: la musica, nel senso che per me esistono solo la musica buona e quella nociva!!!