OBITUARY – Slowly We Rot
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Correva l’anno 1988, ed in Florida si formava una delle band che ha influenzato maggiormente il convulso panorama death metal americano: stiamo parlando degli Obituary, ed in particolare del loro primissimo capolavoro “Slowly we rot”. Dopo questa presentazione degna di uno stupidario storico proposto su History Channel, passiamo a parlare un po’ di questo grandissimo disco.
Si parla spesso dei Pestilence, dei Deicide, del capolavoro degli allora seminali Death “Leprosy”, dei grandi Morbid Angel e del loro celebre “Altars of madness”. Capolavori scolpiti negli annali della storia, di un certo tipo di musica ma dimenticare gli Obituary ed i loro ritmi malati, incessanti, ossessivi, oltre che profondamente laceranti a partire dai testi – diventa un autentico delitto. Un impatto visivo e sonoro che, a partire dall’iconografia scelta per le copertine, possiede un vero e proprio corrispondente “soltanto” (si fa per dire!) negli europei Dismember.
Molte sono infatti le somiglianze tra la band dello svedese Matti Kärki e gli americani in questione, in senso sia musicale che attitudinale. In senso musicale le ritmiche sono pesantissime e bilanciate alla perfezione su rallentamenti da brivido, assoli dissonanti e continui cambi di tempo. Cambi di tempo che, se ci fosse bisogno di dirlo, non hanno nulla di eccessivamente studiato o peggio manieristico, ma provengono dalla spontanea attitudine verso la musica violenta di chi sa veramente il fatto proprio. Questo è il death metal, quando ancora non era contaminato da nulla perchè nessuno poteva ancora averti pensato.
Il celebre pezzo “Slowly we rot” possiede un’attitudine marcia (neanche a dirlo!) che cattura letteralmente l’ascoltatore e lo trascina in un vortice di pessimismo e crudeltà da cui pero’ si riesce ad uscire terribilmente rafforzati. Un pezzo completamente privato della struttura tipica di un brano canonico, come la “tradizione” nascente death stava insegnando: arpeggio distorto, accenno di strofa, assolo, seconda strofa e solo allora un ritornello che suggerisce tutto senza, in fondo, dire nulla (l’ammissione è dello stesso John Tardy: there is no message in Obituary’s lyrics, just some randoms words and statements about death and the rest is just growling, Metal Enclyclopedia).
A tal proposito i testi non sono certo esponenti dell’ermetismo o del decadentismo, eppure possiedono uno spessore – probabilmente involontario – che vive di un’autentica ossessione per le bare, la morte e quindi – metaforicamente – per la solitudine (vedi le parole “lie” ed “alone” distribuite un po’ a casaccio qui e lì nei testi). A volte ci tengo davvero tanto a quello che dicono le parole dei brani, altre volte sono dell’idea (come in questo caso) che non si possa o si debba affidare un vero e proprio messaggio a generi musicali simili, dato che comunque chiunque ritenga abbastanza suggestivo anche l’utilizzo di due sole parole ripetute all’infinito saprà trarre le conclusioni che più lo appagano.
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Ingegnere per passione, consulente per necessità, insegno informatica. Secondo capo-redattore e supporto tecnico di SDM.