Da Tangeri a Düsseldorf: storia della musica elettronica (parte seconda)
Parte Seconda: da Tangeri a Düsseldorf.
Nella seconda metà degli anni ’70, in contrapposizione al grandeur e alla pomposità del Rock Progressive, nacque la musica Punk, imperniata sull’utilizzo di arrangiamenti semplici, scarni, ridotti all’osso e suonata, spesso, da musicisti più che mediocri (Sex Pistols docet) animati dal nichilismo e dalla disillusione che una mai pienamente riuscita rivoluzione culturale, cercata nel decennio precedente, aveva alimentato.
In maniera esattamente speculare e opposta, a metà degli anni 60, proprio alimentati dai fermenti delle rivoluzioni giovanili in atto, numerosi gruppi rock abbandonarono la sterile forma canzone, sviscerata in tutte le salse dal beat inglese (Beatles) e dal surf americano (Beach Boys) – ormai impantanata in un ripetitivo susseguersi di strofe-ritornello senza spunti creativi degni di nota al di fuori della spasmodica ricerca di un motivetto (speso infantile) il più cantabile possibile – ampliando la tavolozza sonora a loro disposizione, inserendo nuovi strumenti musicali (vedi la prima parte di questa storia a puntate che vi stiamo raccontando), allungando la durata dei brani, infischiandosene dei tre minuti di tempo massimo imposti dalle produzioni per realizzare i singoli radiofonici e sposando forme compositive innovative per il mondo del rock, mutuate dalle jam session di stampo jazz (da cui nacque la psichedelia) e dalla musica classica – soprattutto le suite sinfoniche e l’opera – che ispirarono la corrente rock progressive.
Questa contaminazione vide i natali negli States grazie ad artisti del calibro di Velvet Underground, Gratefull Dead e Doors e presto si trasferì oltreoceano dove, ad attenderla, trovò soprattutto i Pink Floyd. Ma, mentre in Inghilterra già dopo un paio di anni la psichedelia si convertì in Rock Progressive, nella fredda Germania essa trovò uno sbocco inaspettato e realmente innovativo, trasformandosi, in pochi anni, nella musica elettronica per come la intendiamo oggi.
La Germania (ovviamente, in questo articolo, ci riferiremo sempre a quella dell’Ovest) non visse affatto in maniera passiva e “manieristica” il suo rapporto con il rock. Tutt’altro: numerosi artisti tedeschi interpretarorono in maniera genuinamente innovativa l’arrivo di questa musica popolare di stampo anglo-americano e ne diedero una loro vivace rilettura, facendosi condizionare anche dagli studi che compositori di stampo classico stavano perfezionando ai “Corsi estivi di composizione per la Nuova Musica di Darmstadt”. Molti dei protagonisti della scena rock teutonica dell’epoca erano, infatti, allievi dei compositori che si ritrovavano annualmente nella cittadina dell’Assia a discutere delle nuove frontiere della composizione musicale, e da loro presero in prestito una concezione musicale avulsa da quella prettamente rock, pur mutuando da questo strumentazione, pubblico, stile di vita ed eccessi.
Come nello stile musicale austro-tedesco del novecento, per cui le basi da cui partire per la creazione di materiale artistico innovativo nascevano da un ragionamento mediato “a tavolino” da un confronto tra i maggiori compositori dell’epoca (scuola di Vienna nel primo decennio del secolo, Scuola di Darmstadt nel secondo dopoguerra), anche la musica elettronica nasce dalle discussioni teoriche di una scuola di pensiero, questa volta ubicata nella città di Berlino (Ovest, ovviamente).
La scuola di Berlino (Berliner Schule der elektronischen Musik) fu fondata a metà degli anni ’60 dal compositore Thomass Kessler e dal suo allievo Christopher (Chris) Franke e gettò le basi teoriche e concettuali per realizzare un nuovo tipo di musica che prevedeva l’utilizzo massivo dei nuovi strumenti musicali elettrofoni – quali organi, sintetizzatori e theremin -, la decostruzione della forma canzone come modello compositivo di riferimento (con la relativa emancipazione dallo show business) e l’elaborazione di un suono minimalista in grado di mediare tra le intuizioni rivoluzionarie delle avanguardie colte e l’istintività primitiva del rock psichedelico. Insomma, di carne al fuoco ne venne gettata più del necessario e per vedere i primi frutti concreti di questa nuova filosofia artistico-musicale che prenderà il nome di musica cosmica (o – come la ribattezzarono con un malcelato senso dello humor gli inglesi – krautrock) bisognerà attendere il terzo lavoro del gruppo più famoso ed importante del neonato movimento artistico: stiamo parlando dell’album Zeit dei Tangerine Dream.
I Tangerine Dream – gruppo iper-prolifico con alle spalle, ad oggi, la bellezza di 56 album di inediti, 27 colonne sonore, 51 raccolte e 31 album live – nacquero a Berlino nel 1968 su impulso del poliedrico artista-musicista Edgar Froese e, nei due anni seguenti, pubblicarono altrettanti album Electronic Meditation e Alpha Centauri in cui, tra tonnellate di rock psichedelico, si iniziavano a intravvedere le “direttive” della Scuola di Berlino. Ma sarà, appunto, con Zeit del 1971 e con l’ingresso in formazione dello stesso Chris Franke che si ebbe la rivolzione copernicana: fuori, se non per brevi episodi, tutti gli strumenti tipici del rock – chitarre, bassi, batterie, percussioni, e nessuna parte cantata – e dentro tutti gli strumenti elettronici reperibili sul mercato tedesco e – perchè no? -, un quartetto d’archi. La rottura con il passato è totale: se la psichedelia si basava su un infinito ripetersi di un giro di accordi su cui i vari musicisti improvvisavano (spesso in maniera neanche troppo consapevole), ora la dimensione cambia completamente, il concetto di “giro di accordi” viene abolito così come le melodie intelligibili che si ripetono: è tutta una creazione continua di suoni sovrapposti che si inseguono in una corsa infinita verso spazi siderali sconosciuti e infiniti, dove nulla di ciò che si ascolterà negli ultimi istanti dei lunghissimi brani sarà riconducibile a ciò che è stato nella prima parte. Ognuno dei tre musicisti e il quartetto d’archi, esegue la sua parte che sembra essere slegata da ciò che stanno suonando gli altri e il risultato è un viaggio allucinante tra nevrotiche melodie che si sovrappongono e suoni nuovi, particolari, mai sentiti e, a tratti, difficilmente digeribili dall’ascoltatore meno attento. Se il viaggio tra le note dei Tangerine Dream iniziava timidamente sulla terra, esso arrivava spavaldo alla sua conclusione nella galassia di Andromeda.
Neanche il tempo di capire la portata della rivoluzione scatenata dai Tangerine Dream con l’album Zeit che, qualche mese dopo, Klaus Schulze – batterista dei Tangerine Dream all’epoca del loro primo album Electronic Meditation – diede alle stampe l’album Irrlicht distruggendo l’altro monolite su cui si è basata la musica dalla sua creazione in tempi immemori fino ai nostri giorni: la linea melodica.
Scordatevi motivetti da canticchiare, cori da stadio o nenie liturgiche (non che nei Tangerine Dream ve ne fossero a profusione, intendiamoci). In Irrlicht non troverete nulla di tutto ciò: monolitici e lunghissimi accordi di organi, sintetizzatori e orchestra d’archi, si susseguiranno come un fiume in piena per interi minuti, senza cambiare intonazione, semmai incontrando lungo il loro inarrestabile cammino singole note, pulsazioni ritmiche o modulazioni di frequenza che andranno a costituire le increspature di questo poderoso fiume. Ovviamente, come ogni fiume che si rispetti, nel suo cammino incontrerà rapide e cascate che rimescoleranno il flusso, il ritmo e la cadenza, fino a far terminare la corsa, placidamente, in mare.
Tangerine Dream e Klaus Schulze rappresentano l’apice della prima fase di questa esperienza musicale prettamente tedesca e continueranno, nei decenni, a portare avanti la loro vastissima discografia, a volte con lavori geniali e dal discreto successo commerciale (Phedra e Rubycon i primi, Cyborg e Picture Music il secondo), altri episodi, invece, più che percorsi creativi coerenti, sembrano essere delle mere sperimentazioni in cui i musicisti sembrano divertirsi a giocare con i più disparati tipi di sintetizzatori e generatori di suoni.
L’esperienza elettronica del krautrock, non si chiude certo con questi due nomi: Ash Ra Tempel (del geniale chitarrista Emmanuel Gottsching), Can, Neu!, Faust, Popol Vuh, sono solo alcuni dei tanti artisti che diedero fermento al movimento, gettando le basi per la creazione di nuovi generi come la trance, l’house, la new age e l’industrial. Altri gruppi, come Amon Düül II e Annexus Quam, pur essendo sempre catalogabili nel calderone del krautrock, prenderanno vie diverse, più vicine all’hard rock e alla psichedelia pura.
In questo articolo non abbiamo spazio a sufficienza per parlare nel dettaglio di tutti loro e per questo vi rimandiamo a futuri articoli. Ma ancora ci manca l’ultima stazione per concludere il nostro viaggio in Germania che ci porterà da Tangeri (leggasi Berlino Ovest) a Düsseldorf, a bordo del treno che chiameremo Trans Europe Express, dal titolo del sesto album dei Kraftwerk.
Il gruppo di Düsseldorf, capitanato da Ralf Hütter e Florian Schneider, dopo una partenza in classico stile krautrock nei primi due album, dal terzo album in poi, Ralf&Florian e, soprattutto dal quarto, Autobhan, cambieranno per sempre il loro sound e con esso influenzeranno la storia della musica pop e rock in maniera così importante da essere entrati di diritto nell’empireo dei gruppi fondamentali per lo sviluppo di questi generi.
Al contrario dei loro coevi Tangerine Dream e Klaush Schulze, il loro intento non è quello di dissacrare i canoni della musica popolare. Sposano in toto sia la forma canzone (magari riducendola ad un essenziale ritornello da iterare infinite volte) che la ricerca di linee melodiche semplici ed efficaci. Cristallizzano i testi in pochi versi, semplici e diretti, composti da limitati vocaboli, possibilmente onomatopeici, che spiegano, come in un aforisma, il messaggio che vogliono comunicare. I ritmi sono sempre meccanici, serrati e ossessivi ma mai fastidiosi, creati con strumenti sintetici così come sono sintetici tutti gli altri suoni che utilizzano, alcuni autocostruiti. Anche le voci saranno pesantemente processate da macchinari elettronici, tanto da risultare volutamente robotiche e impersonali.
Ed è proprio questo il senso dello stile dei Kraftwerk: se gli altri gruppi del kroutrock tenderanno, con le loro musiche, a compiere immaginifici viaggi siderali negli spazi infiniti tra le galassie, i Kraftwerk si avventureranno in un viaggio nel futuro degli uomini, quando le macchine probabilmente saranno anche in grado di portarci su Andromeda, ma allo stesso tempo si sostituiranno a noi e l’essere umano ne diventerà succube. Il loro è un futurismo al contrario, dove le macchine non renderanno più grande l’umanità bensì la deprimeranno nella loro finitezza e inconsistenza.
Ci sarebbe tanto altro da dire ma per il momento il nostro treno si ferma qui, a Düsseldorf, in compagnia dei Kraftwerk e della loro musica del futuro e per il prosièguo del viaggio vi rimandiamo alla prossima puntata della nostra storia della musica elettronica.
Sono Saverio Chiodo, musicista per diletto e musicologo per studi (ma non per professione). Autore del libro “Woodstock: Alba&tramonto” edito da Arduino Sacco Editore nel 2010. Genere preferito: la musica, nel senso che per me esistono solo la musica buona e quella nociva!!!