BARONESS – Yellow & Green

BARONESS – Yellow & Green

 

Attesi al varco, i Baroness. Attesi da chi li ha amati dopo i due splendidi album precedenti, ovvero ‘Red Album’ (2007 – Releapse Record) e ‘Blue Record’ (2009 – sempre per Releape).

Attesi da chi, pur non amandoli visceralmente, era semplicemente rimasto deluso dall’ultimo parto dei Mastodon, band-totem per i nostri, deponendo in loro le speranze di riascoltare un disco di sludge metal paludoso, progressivo, bluesy e sudista, un disco dove si bada alla qualità della musica e non alla sua possibile fruizione di massa, come fu qualche mese fa ‘The Hunter’.  Attesi dai loro detrattori, frementi di bollarli ancora una volta come dei copioni, l’ultimo bluff dell’Heavy Metal.

Per soddisfare cotanta attesa, i Baroness decidono di rilasciare un doppio album, mossa alquanto spiazzante e col senno di poi, non proprio giustificata. Ma andiamo con ordine.

Gli amanti dello sludge metal ipertecnico e senza compromessi si aspettavano una sorta di ‘Leviathan’ made in Baroness, a mio avviso in modo ingiustificato, visto che la band di Savannah non ha mai avuto la furia iconoclasta che fu di Brent Hinds e soci nei loro sfolgoranti esordi.

Aggiungiamoci il fatto che i Baroness hanno deciso di effettuare una decisa sterzata del proprio sound verso sonorità molto più melodiche, semplici, di facili e sicura presa ma non privi di groove. Ed ecco quindi ‘Yellow and Green’, album di dimensioni pantagrueliche si, ma non sempre di eccellenza compositiva.

E’ senz’altro l’opera più ambiziosa composta finora dall’illuminato grapher e indiscusso leader John Baizley, qui autore (come sempre) dell’eccelso artwork, nonché ovviamente delle parti di chitarra e voce.

Continuando per ordine, iniziamo dal primo dischetto, “Yellow”…..

Dopo un intro a base di sith e chitarre pulite, giungiamo al primo vero brano, ovvero ‘Take my Bones Away’, scelto anche come primo singolo di presentazione della raccolta. Da esso non si scorgerebbero ancora l’autentica rivoluzione copernicana adoperata dalla band, trattandosi infatti di una canzone di grande impatto, molto melodica ma pregna di un groove tipicamente stoner-rock.  Certo, alcune novità balzano subito all’orecchio: Il cantato di Baizley è molto pulito (e lo diverrà molto di più man mano che scorreranno i minuti e le canzoni), il basso è bello sporco ed in primo piano e fa pendant con la batteria dell’ottimo Allen Blickle, mentre l’altra chitarra, di Peter Adams, armonizza e rifinisce il tutto con la maestria ed il gusto melodico che abbiamo adorato nei Baroness dei primi album, ma senza quelle parti pese di peso dal Mastodon-sound.

Stoner rock melodico e groovy, con un impatto devastante e ben risaltato dall’ottima produzione di John Congleton quindi, specie nel chorus che si stampa in testa al primissimo ascolto. L’inizio di ‘March To The Sea’ è affidato alle due sognanti asce, prima dell’entrata della sezione ritmica che riporta il tutto verso lidi stoner, meno irruento rispetto alla canzone precedente, ma ancora una volta dotata di un tiro incredibile e di un ritornello a presa rapida. Il solo incrociato delle due chitarre che poi sfocia nel ritornello finale è da capogiro!  Dopo una doppietta di tale caratura, giungiamo a ‘Little Things’, che definirei senza timor di smentita, un brano Alternative Rock. L’atmosfera si fa decisamente più soffusa, le chitarre sono pulitissime, i syth di sottofondo donano al brano un che di onirico, John canta con un trasporto che gli era sconosciuto negli anni scorsi. Verso la fine del brano le due chitarre si specchiano e si rincorrono in quello che sappiamo finalmente riconoscere come il suono Baroness D.O.C. Ma sono solo pochi secondi, il pezzo sfuma in ‘Twinkler’ che vorrebbe essere la “Steel That Sleep The Eye” di ‘Yellow and Green’, senza però averne la qualità.

Per carità, è un ottimo pezzo acustico, il tappeto delle due chitarre su cui si stampano le linee melodiche del sinth, la voce pulita e corale e gli arrangiamenti in clean guitar sono di sicuro effetto ed impatto, ma “Steel…” era tutt’altra roba. ‘Cocainium’ ha un titolo che trae in inganno, infatti non ci troviamo affatto dinanzi a una song adrenalinica come prevedibile (ed auspicabile?), bensì i Baroness continuano il loro viaggio verso le atmosfere rarefatte e iper melodiche. Trattasi per l’appunto di un brano puramente post-rock alla Explosion in the sky (con cui condividono il produttore) e ‘God is an Astrounaut’, in cui non manca un tocco seventies.

Da non credere se ricordiamo i vecchi Baroness, ma la qualità anche in questo caso non manca affatto ed ormai dobbiamo considerare ‘Yellow and Green’ con la mente sgombra da “reminiscenze rosse e blu”.  Un tuffo nelle ere d’oro del rock è anche ‘Back Where I Belong’, splendida ballata piena di un pathos che conquista l’anima e la lascia cullare dalle note straziate e strazianti che sgorgano dai solchi virtuali del CD. Da segnalare l’assolo di chitarra, tanto semplice quanto emozionante. ‘Sea Lungs’ è un ritorno alla doppietta iniziale, sorta di stoner rock fuso ad un incedere decisamente epico, trascinante e coinvolgente, ed ancora John Baizley sfodera una prestazione vocale da urlo, sorprendendoci per i progressi raggiunti. ‘Eula’ è l’ultimo brano da “Yellow”, ma come avremo modo di vedere potrebbe essere il primo brano di “Green”, considerazione questa che dona un senso di continuità ed unione tra i due dischi.

In ‘Eula’, come in tutto il lato “Green”, le atmosfere sono infatti ancor più rarefatte ed oniriche, la band abbandona del tutto le sonorità paludose che, seppur con mille differenza rispetto al passato, caratterizzavano in parte alcune soluzioni del primo dischetto, per mettere nel mirino un prog rock vecchio stampo, alla Pink Floyd, se vogliamo utilizzare un paragone un pò forzato.  Nei fatti, la qualità di ”Green” appare inferiore rispetto a “Yellow” e quindi non mi spiego il perché del doppio album. Certo ci sono buoni brani come ‘Bord Up the House’, ‘Foolsong’ e ‘Psalm Alive’, ma resta comunque il minutaggio esagerato che abbassa la media generale del lavoro.

Alla fine della fiera, la scelta dei Baroness è stata unicamente quella di commercializzarsi? Direi di no, non fai un album doppio se hai questo fine, nonostante la musica proposta in metà di esso possa avere appeal anche presso un pubblico non avvezzo a sonarità metal (che in effetti è del tutto assente in quest’opera.)

Allora la scelta utile per onorare il contratto che sancirà la fine della collaborazione con la Releapse Record? Anche in questo caso, direi di no, visto che materiale per fare un disco di 40-45 minuti i Baroness ne avevano (e sarebbe stato meglio fare cosi…) e le case discografiche sono notoriamente restie a commercializzare double CD, visto lo “spreco” di materiale.

Allora come dobbiamo congedarci da ‘Yellow and Green’?  Sicuramente dicendo che questa è l’opera che i Baroness in piena e libera coscienza volevano fare, un doppio album che sancisce la loro voglia di suonare un rock contemporaneo, di qualità e impatto ma allo stesso tempo la voglia di celebrare quello che è un evidente pallino della band statunitense, ovvero il rock prog seventies atmosferico ed emozionale. Un opera che comunque val la pena di ascoltare, capire in modo da farsene conquistare.

A cura di Matteo Di Leo

  • Band: Baroness
  • Titolo: Yellow & Green
  • Anno: 2012
  • Etichetta: Relapse Records
  • Genere: Alternative Rock/Stoner Rock/Post-Rock
  • Nazione: U.S.A.

Tracklist:

Yellow (CD1) 

1- Yellow Theme
2- Take My Bones Away
3- March To The Sea
4- Little things
5- Twinkler

6- Cocainium
7- Back Where I Belong
8-Sea Lungs
9-Eula

Green (CD2): 

1- Green Theme
2- Board Up the House
3- MTNS (The Crown & Anchor)
4- Foolsong
5- Collapse
6- Psalms Alive
7- Tretchmarker
8- The Line Between
9-If I Forget Thee, Lowcountry