DYING FETUS – Purification Through Violence

DYING FETUS – Purification Through Violence

Prima di ascoltare “Purification through violence” sarà bene dimenticare, per qualche tempo, le finezze produttive della produzione più recente della band, che qui scatena una furia ragionata, compatta ed estremanente tecnica. La band di John Gallagher (chitarra e voce), Jason Netherton (basso, voce), Brian Latta (chitarra) e Rob Belton (batteria) produce un album di esordio che non rientra forse tra i preferiti dai fan del genere, per quanto offra spunti molto interessanti sia dal punto di vista musicale che da quello concettuale. Certamente stiamo parlando di una delle band più moderne – nel senso di “produttivamente di livello” – di questo genere, caratterizzato da una brutalità “espansa” e, in un certo senso, relativamente ragionata, specie se messa a confronto con la furia diretta e “caciarona” di altre band seminali di genere grindcore.

Seguendo parzialmente la linea di confine tracciata “saggiamente” dai conterranei Morbid Angel e Suffocation, i nostri caratterizzano “Purification through violence” – un titolo che è già tutto un programma – in termini di continui cambi di ritmiche, talmente frequenti che, se non fosse per il brutalissimo cantato, sembrerebbe di avere di fronte una band che fa “semplicemente” death tecnico. Discreta attenzione viene posta al contenuto dei testi – una caratteristica fondante, in generale, per questa band – e questo si concretizza attraverso un singolare collage che usa immagini disgustose e disturbanti per trasmettere metafore ed analogie reali, per quanto in modo ancora un po’ immaturo – le prime parole del disco recitano rabbiosamente “fuck you all“. La stessa etichetta grindcore, in questo caso, assume in questa sede una valenza fondamentale: scaricando il genere death metal dalla pesantezza (ritmica, vocale e/o concettuale) che troppo spesso lo accompagna, i Dying Fetus di questo lavoro liberano, in prima istanza, tutta la propria furia interiore, capace di far convivere la tecnica con alcuni sprazzi di delirio e svariati breakdown prettamente hardcore (vedi, ad esempio, l’urlo prolungato che conclude inaspettatamente “Blunt Force Trauma“). L’aspetto più positivo di questo lavoro emerge in effetti proprio dai piccoli dettagli, come il micro-arpeggio in acustico (!) che intervalla, tra una schitarrata e l’altra, “Raped on the Altar“, oppure la cover di “Skum” dei Napalm Death (che ricorda a tutti di che cosa stiamo parlando, e che non si tratta propriamente di death metal nonostante la band sia americana, abbia un monicker inquietante e suoni “veloce e cattivo”). Il primo album ufficiale dei Dying Fetus, un grindcore nudo e crudo, tanto privo di compromessi quanto ben focalizzato sui singoli dettagli, emerge in modo rapidissimo quasi dalle viscere della terra, e l’ascoltatore che riesca a superare la diffidenza “rumorosa” iniziale finirà per essere istigato ad un continuo, forsennato headbanging, di quelli che – purtroppo o per fortuna – si ascoltano sempre meno nei dischi più recenti.