NEVERMORE – Dead Heart in a Dead World
I Nevermore sono una delle band metal “di culto” che probabilmente rappresentano meglio la capacità di unificare la componente più “old school” del genere con quella più tecnica, tipica del progressive rock: una dote che negli ultimi anni è diventata quasi scontata per molte band, basti pensare ai tanti che hanno finito per complicare notevolmente la fase compositiva rispetto alle origini (ivi comprese band decisamente “brutali”), o anche alcune punk hardcore che hanno inesorabilmente finito per “metallizzare” il proprio sound. Sta di fatto che i Nevermore sono riusciti, al pari di altri colleghi come ad esempio gli Opeth, a conferire un’autorevolezza generalizzata ad un genere di per sè non riusciva ad ottenere, salvo sporadici casi, e questo – com’è ovvio – soprattutto nei confronti della critica musicale e del pubblico più attento alle soluzioni per così dire “melodiche”. Non che queste tendenze siano di per sè paradigmatiche o esempio di perfezione assoluta, intendiamoci: semplicemente la band di Warrel Dane (voce), in particolare con questo “Dead heart in a dead world“, è riuscita a mettere insieme un amalgama invidiabile di brani tra di loro piuttosto differenti: un collage complessivo che – oltre a suonare tremendamente attuale ancora oggi – riesce a non apparire come un insieme di frammenti disumanizzato di “cose” messe a casaccio per il gusto di sforare gli schemi. Una band in uno stato di forma invidiabile, a mio avviso, che ha concepito un album metal di grandissimo livello e che riesce a suonare “bene”, a scivolare addosso all’ascoltatore senza pesantezza e senza alcuna degenerazione in soluzioni virtuosistiche fini a se stesse (riferimento alla notissima band di Petrucci che, dopo un lavoro impeccabile e solidissimo come “Images & Words“, hanno finito per ripetersi negli anni successivi in modo leggermente stantìo). L’autorevolezza di “Dead heart in a dead world“, deriva in primis dall’utilizzo della voce dal timbro chiaramente clean del cantante, autore di performance vocali realmente da manuale (ad esempio in “We Disintegrate“), accompagnate da riff granitici e “pesanti” al punto giusto, mai rigidamente autoreferenziali, estremamente diversificate e con un occhio di riguardo verso il modo di comporre delle band storiche. Il tutto vantando una produzione davvero di livello per il periodo: è vero che il decennio dal 2000 in poi ha partorito svariati album di grandissimo livello, probabilmente anche superiori a questo lavoro, ma qui siamo realmente ad uno dei punti di svolta. Un suono che avvolge l’ascoltatore fin dalla primissima nota, liberando un potenziale differente in brani più classicamente metal (“The river dragon has come” oppure la stessa title-track), altri più oscuri (la nichilista “Believe in nothing” che fa coppia con la splendida “The heart collector“, uno dei migliori brani in assoluto del disco, con un testo molto profondo ed intimista: Nevermore to feel the pain, The heart collector sang, And I won’t be feeling hollow for so long, The words fall out like fire Just believe when you can’t believe anymore), altri ancora legati a tradizioni piuttosto distanti dal metal stesso (la cover del famosissimo pezzo di Simon & Garfunkel “The Sound of Silence“, riarrangiata in modo puramente progressive metal e ricca di sfuriate più propriamente thrash, soprattutto priva delle degenerazioni che, tipicamente in questi casi, rendono tali rielaborazioni un semplice modo per sorridere assieme agli amici). In molti hanno parlato di “teatralità” del sound dei Nevermore, personalmente userei tale aggettivo in contesti ben diversi, ad esempio quelli in cui la band costruisce la propria impronta basandosi anche su elementi puramente da palco: non mi pare il caso di questa band, che qui si regge in piedi più che dignitosamente con un semplice, piccolo capolavoro di Metal del nuovo millennio.
Ingegnere per passione, consulente per necessità, insegno informatica. Secondo capo-redattore e supporto tecnico di SDM.