SDM Classics: GUNS N’ ROSES – Appetite For Destruction

SDM Classics: GUNS N’ ROSES – Appetite For Destruction

Coraggio Adriana, fallo sul serio! Smettila di fingere!”

Il nastro stava girando, ma sembrava che qualcosa non stesse andando per il verso giusto: la storia racconta di un Axl sdraiato all’interno di un’oscuro studio di registrazione di Manhattan, intento ad una serie di registrazioni poco ortodosse. Molto vicino a lui si trovava una giovanissima spogliarellista – Adriana Smith, oggi mamma cinquantenne che non rinnega (giustamente) un bel nulla dell’accaduto: l’idea della coppia era quella di registrare il suono autentico di una focosa scopata.

Il primo album dei Guns’n Roses è, paradossalmente (a dispetto della sua immediatezza) difficile da descrivere ai (massimo 10 o 12) rocker che ancora non lo conoscessero: se volessimo rendere l’idea di Appetite for destruction in termini prettamente sessuali, sarebbe agevole tenere presente quella sequenza e trasporla in musica. Registrato nel 1987 con in regia Jeff Poe e Andy Udoff, è musica diretta, sudata, intensa. In una parola, vera: esattamente come un porno amatoriale che, per quanto possa sembrare privo di buone maniere, riesce a rendere meglio di una qualsiasi mega-produzione per adulti plastificata o sintetica. E non solo: il primo disco dei Guns va ascoltato con la più avida e selvaggia voglia di rock (e di blues, anche, il che pervade abbondantemente i contributi musicali di Slash), a sprazzi con una sorta di sguardo perverso, entusiasta e vagamente depravato. Un po’ come chi, stanco degli effetti horror che non spaventano più nessuno – e naturalmente mutatis mutandis – arriva a cercare orrendi (ma appetibilissimi) film snuff sul web per placare la propria fame di “roba spaventosa”. Sì, perchè Appetite for destruction fa esattamente questo: attrae e spaventa nella stessa magica misura in cui pochissimi altri classici riescono a fare.

Non ci sono dubbi che il paragone non sia troppo inesatto a confronto di molte altre produzioni fake e plastificate, ma questo lavoro non deve comunque far pensare ad una sonorità poco curata o “amatoriale” nel senso stretto del termine: questo perchè probabilmente “Appetite for destruction” è uno dei dischi più autentici, originali e meglio suonati del periodo, una sorta di equivalente di “Reign in blood” (uscito l’anno prima, per inciso) per lo street-glam metal. Niente finzione, niente posa, solo sanissimo e ultra-distruttivo rock ottantiano.

La voglia di (auto)distruzione dei Guns’n Roses – qui in formazione originale con Axl Rose, Slash, Izzy Stradlin, Duff McKagan e Steven Adler – è testimoniata, a partire dal titolo dell’album, dai chiassosi anthem come il baccanale contenuto nella celebre “Welcome to the jungle“, oppure la scatenata “Nightrain“, che sono quelli che rimangono più impressi nella mente dell’ascoltatore assieme, ovviamente, alla sputtanatissima quasi-balladSweet child o’ mine“. Più di ogni altra cosa, a mio parere, la band di Axl e Slash testimonia in questa sede uno degli esempi più vividi, e credo meglio scolpiti nella storia della musica, del concetto di reale attitudine nel comporre, suonare e riproporre negli anni un genere musicale: un misto tra hard’n heavy, hard rock e glam che avrebbe fatto scuola negli anni a seguire.

Out ta get me” e “You’re crazy“, giusto per citarne altre due, sono fulgidi esempi di hard rock con una certa influenza AC/DC, che si richiamano a loro volta senza esitazione ai vecchi classici del rock di ogni tempo. In tutto questo processo la band è molto attenta, in questa sede, a non risultare troppo rigidamente autoreferenziale, occupando così in modo originale uno spazio musicale che solo in pochi, nel seguito, sarebbero riusciti ad elaborare con la stessa convinzione (riuscendo nel contempo a convincere pienamente il pubblico).

Appetite for destruction è un concentrato di rock’n roll da valutare al di là di qualsiasi apparenza: brani poco noti come “Anything goes” (con la sua furia selvaggia ed i suoi riff blueseggianti perennemente al vetriolo) uniti ad altri come l’indimenticabile “Rocket queen” (con tanto di gemiti della succitata Adriana registrati all’interno!) mostrano una band in forma smagliante nonostante gli eccessi del periodo, in un connubio di “feroce e sexy hard rock, che aveva trovato qualcosa in comune tra Aerosmith, Sex Pistols, Lynyrd Skynyrd e New York Dolls” (Slash).

Un disco che ricrea e ridefinisce un genere, globalmente ricco di allusioni alla triade sesso, droga e musica selvaggia: in altri termini una versione cruenta, nuda e cruda di sanissimo rock’n roll che possiede come principale pregio quello di presentare, molto probabilmente, i Guns più aggressivi, convinti ed autentici mai ascoltati. Questo, ovviamente, a dispetto dell’immagine (per quanto relativamente) educorata che la band ha scelto di proporre nel seguito, facendosi forse prendere troppo la mano dalla melodia, contaminazioni improbabili e ballad che, per quanto indimenticabili, ne hanno fatto perdere buona parte dell’incisività.

Welcome to the jungle